La Grola. I trent’anni di un vino leggendario.

DI Chiara Maci | 28 Feb 2013

E’ stato un enorme piacere, da sommelier, blogger e amante del meraviglioso mondo del vino, essere invitata da Marilisa Allegrini e da Hangar Design Group alla presentazione dei 30 anni di un vino meraviglioso: la Grola.

-Marilisa, Silvia, Franco Allegrini-

Un blend di Corvina veronese (80%) e Syrah (20%) che porta il nome del vigneto di produzione.
E’ proprio nelle vigne de La Grola, di proprietà della famiglia Allegrini dal 1979, che pare essere nata la varietà autoctona più rappresentativa della zona, ovvero la Corvina veronese.

Il pranzo, al Ristorante Armani, semplice, equilibrato e perfetto, preparato dallo chef romagnolo Giandomenico Melandri si abbinava perfettamente alle quattro annate di Grola degustate.

Per iniziare La Grola IGT 2009 abbinato ad un Carpaccio di carne salada di cervo al ginepro, salsa al gorgonzola e agretti.



Continuando con La Grola IGT 2001 abbinato ad un Maccheroncello di grano arso al torchio, ragù di galletto, cipollotto rosa e pecorino. 



A seguire La Grola IGT 1998 con la Costoletta di agnello in fricassea, latte di pecora in piedi e fave fresche.

Per terminare una Selezione di formaggi (Bagoss, Parmigiano Reggiano 36 mesi, Pecorino di Fossa) servita con gelatina di vino La Grola e abbinato a La Grola IGT 1997.

Vi lascio, di seguito, la leggenda della Grola. Perchè merita una lettura …

«Beniamino…! Beniamino…!» Tutto il giorno a zappare, quel testardo, sulla collina. Maledetta quella collina, fatta soltanto di sassi bianchi e di poca terra.

Ma lui, indomito, paziente, cocciuto, ogni mattina all’alba partiva con la sua zappa in spalla a zappare quei sassi, perché l’acqua filtrasse a irrigare un poco le radici delle vigne conficcate nel pietrisco. «Beniamino!» lo si sentiva chiamare, quando il sole aveva già passato il Mezzogiorno. 
«Beniamino!», lo chiamava sua moglie, per invitarlo ad accostarsi al povero desco dove aveva messo insieme quello che aveva, a dare un po’ di gusto all’immancabile polenta.
Sempre, ogni giorno polenta. «E ancora ti ostini, a salire su quella maledetta collina!» La moglie glielo ripeteva come una litania. 
«Tra quelle vigne, storte e raggrinzite come un vecchio.» 
Non aveva torto. 
Quel vigneto era rinsecchito e poco vigoroso e dava soltanto radi grappoli di uva bianca, troppo acida e aspra per venderla al mercato, troppo asciutta e amarognola per ricavarne del buon vino. 
«Vendili, quei campi» ripeteva la moglie, «ti fanno soltanto tribolare, senza ricavarne denaro».
Beniamino non l’ascoltava e, alzatosi da tavola ancora con il boccone in gola, riprendeva la sua zappa e tornava sulla collina, a lavorare. Gli altri contadini, guardandolo salire il pendio, ridevano di lui: «Vai a zappare sassi anche oggi, eh Beniamino?» 
«E cosa pensi che nascano dalle viti di quella collina? Pietre?» «E cosa te ne farai di un’uva che non matura mai?»
Non li ascoltava, Beniamino, e dentro di sé, carico di rabbia, diceva che l’avrebbe fatto vedere, a quegli stolti, che vigneto avrebbe coltivato lassù. Che grappoli di uva gonfi e dolci avrebbero dato, un giorno, quelle piante. 
Che vino ricco e profumato avrebbe ricavato da quell’uva.
E di notte sognava otri di vinacce a fermentare nella sua cantina, fiumi di mosto e zampilli di vino a traboccare dalle botti e inondare la corte, dove lui danzava, ebbro di felicità.
«Ve la farò vedere! A tutti, a mia moglie, a questi contadini invidiosi di questa collina che è il luogo più bello della valle» diceva Beniamino, risalendo il sentiero.
Era già pronto a dare, rabbioso, la prima zappata nella terra quando vide, accanto a un tralcio, un corvo disteso tra i sassi. Incurante, fece per sferrare il colpo, ma lo fermarono gli occhi dell’animale che sembrava guardarlo. Si chinò e si accorse che il corvo era ferito; un’ala gli era stata quasi mozzata e la ferita sanguinante gli impediva di volare, provocandogli dolore. 
Beniamino lasciò la zappa e, raccolto il corvo, tornò a grandi passi verso casa dove la moglie si stupì nel vederlo rientrare così presto. 

«Avrà finalmente deciso di lasciar perdere quei quattro sassi», pensò, ma fu ancor più stupita quando si accorse che Beniamino, con un corvo tra le mani, andava veloce in stalla dove posò l’animale in un giaciglio ricavato nel fieno. «È matto», disse la moglie, «quella collina l’ha fatto impazzire».
Per giorni Beniamino trascurò il vigneto della collina per curare l’animale ferito, prima fasciandogli l’ala, poi procurandogli vermi, insetti e briciole di cibo, controllando ogni momento che avesse mangiato, restando per ore immobile, a guardare quegli occhi che lo fissavano e quel becco immobile.
Giorno dopo giorno, Beniamino si occupava ormai soltanto del suo amico nero dagli occhi tristi, dimenticando il vigneto. 
«Se n’è dimenticato, finalmente», sospirava la moglie, e in cuor suo sperava che il marito avesse deciso di sbarazzarsi di quelle terre improduttive.
Venne il giorno in cui il corvo, guarito, spiccò di nuovo il volo.
Prima timidamente, per qualche metro soltanto, nell’aia, poi, con più coraggio, volò fin sul ciliegio, e sul pero, e più in su, sul colmo del tetto della stalla. Fu da lassù che Beniamino vide il corvo guardarlo per l’ultima volta, e gli parve di vedere 
in quello sguardo la riconoscenza per averlo salvato. 
«Che stupido a pensare che un corvo possa dire grazie!», disse Beniamino quando l’animale s’involò. 
Dapprima incerto, il corvo si alzava e si abbassava sopra la corte, poi prese fiducia, si alzò più alto, per tre volte girò sopra la casa di Beniamino e poi sparì, gracchiando.
Beniamino restò a guardare il cielo, poi abbassò gli occhi e fece un grande respiro, le sue mani ruvide si intenerirono di un fremito e lustri divennero gli occhi bruciati dal sole: quel piccolo corvo aveva toccato le corde del suo cuore di contadino. Sembrò allora risvegliarsi da un lungo torpore, gli tornarono in mente i suoi vigneti e si avviò, rammentando soltanto ora che la sua zappa era restata là, dove l’aveva lasciata il giorno in cui aveva trovato il corvo.
«Beniamino, dove vai?», gridò la moglie vedendolo allontanarsi. «Su in collina», rispose Beniamino senza voltarsi e senza accorgersi del gesto stizzito e dello scuotere la testa della moglie, e del mormorio di non si sa quale imprecazione. 

Arrivò sulla collina ansimante, con nell’animo un senso di colpa per averla così a lungo trascurata.
Giunto al vigneto, ritrovò la zappa e afferratala era pronto a farla roteare in cielo quando vide un corvo nero sfiorare con le ali i tralci della vigna. L’animale lo guardò un istante e volò via, veloce e invisibile. «No, non può essere lui…» sussurrò Beniamino, e sorrise, ripensando al suo corvo e a lui, povero stupido, che pensava lo avesse seguito fin lassù. Poi iniziò a lavorare, con vigore, con forza, con una volontà che mai gli sembrava d’avere avuto prima.
«Beniamino…! Beniamino…!» Il grido consueto era tornato a udirsi nella valle. Era tempo di vendemmia. Da giorni il cocciuto contadino saliva ancor prima del solito sulla collina, con un non so che di luce negli occhi che non ingannava la moglie: qualcosa era accaduto, forse aveva ritrovato quel suo corvo nero.
Ma quando la moglie lo vide arrivare, portando con sé un pesante cesto, e vide quel cesto carico di grossi grappoli d’uva, turgidi, nerissimi e dolci, capì. Beniamino le disse che era l’uva della sua collina, e non riuscì a convincerla fin che non la portò lassù, tra i tralci da cui pendevano splendidi grappoli di uva. 
«È stato il corvo», disse, e non ci fu verso di togliergli dalla testa l’idea che il corvo nero che aveva amorevolmente curato era volato sopra quella vigna, l’aveva sfiorata con le sue ali compiendo il miracolo dell’uva nera.

«Quest’uva si chiamerà corvina», disse Beniamino, «e questa collina La Grola». 

-testo di Alessandro Anderloni-
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